Camminata nel Parco Sud di Milano
Scesi dal treno a Rogoredo ci avviamo in fila indiana lungo la stretta via Sant’Arialdo sotto lo sguardo attento di Tony, capofila e paladino di questa gita, e di Pino, dotato di gilet riflettente ad alta visibilità, che chiude la fila e ci ha fornito alcune belle fotografie. Superato il cavalcavia Pontinia si apre alla vista il vasto parco sud di Milano. Un ampio sentiero, punteggiato da tantissime giovani farnie piantate durante la recente bonifica della zona, conduce al cortile della Abbazia di Chiaravalle dove il gruppo guidato da Tony si concede un bel selfie per immortalare l’evento.
La facciata della chiesa, in pietra bianca seicentesca, lascia intravedere la facciata originale a capanna in mattoni rossi del 1135, consacrata e dedicata a S. Maria di Chiaravalle nel 1221. Sui battenti del bel portale ligneo del XVI secolo sono scolpiti i ritratti quattro Santi, tra i quali san Bernardo e lo stemma della chiesa rappresentato dalla cicogna con pastorale e mitra.
Interno dell’Abbazia
La chiesa ha una pianta a croce latina e le tre navate sono divise da poderosi pilastri cilindrici (1,8 m di diametro) con base semplicissima e pressoché privi di capitelli.
Secondo i dettami dell’Ordine cistercense la chiesa doveva essere sobria e luminosa caratterizzata da una quasi totale mancanza di decorazioni perché era la luce divina a parlare non i manufatti umani. E la luce infatti penetra dalle ampie finestre dell’abside e da finestrelle di affaccio nel sottotetto.
Nel tiburio si apprezza la cupola da cui si innalza la grande Torre Nolare (“ciribiciaccola”) ove è collocata la campana fusa nel 1453 e azionata manualmente ancora oggi dai monaci cistercensi con una corda che pende in mezzo all’incrocio tra il transetto e la navata centrale della chiesa, per chiamare a raccolta il capitolo dei monaci per la liturgia delle ore.
I pochi affreschi presenti nel tiburio, molto ammalorati, (Storie di Maria Santissimi, Incoronazione della Vergine, Dormitio Mariæ, Funerali di Maria Santissima Evangelisti e una parte di cielo stellato di scuola giottesca della metà del trecento) rappresentano una eccezione alla regola cistercense, sconvolta poi completamente nel 1613 per seguire i nuovi dettami del Concilio di Trento che consideravano edificanti ed educative le sacre immagini nelle chiese. Vennero chiamati i fratelli Giovan Battista e Giovan Mauro Della Rovere, detti i Fiammenghini (per l’origine fiamminga del loro genitore) per decorarono in modo esageratamente ricco, ma di facile comprensione e di grande efficacia espressiva, le pareti del transetto, della controfacciata e i pilastri.
Nella controfacciata i Fiammenghini affrescano la storia del monachesimo cistercense e la nascita dell’abbazia milanese: al centro, campeggia la figura di una donna in bianche vesti, allegoria della Chiesa cattolica, apostolica e romana, davanti alla quale si inginocchiano l’antipapa e i milanesi scismastici ricondotti alla vera religione nel 1134 dallo stesso Bernardo. Sulla destra lo stesso Bernardo con il modellino della futura chiesa di Chiaravalle con la “Ciribiciaccola”.
Gli stessi Fiammenghini dipinsero nel transetto sinistro il martirio delle monache cistercensi nel monastero polacco di Vittavia e di San Tommaso Becket, arcivescovo di Canterbury. Nel transetto destro storia dell’Ordine Cistercense con la Fondazione di Citeaux e l’Albero genealogico dei cistercensi.
Parte della navata centrale è occupata dallo stupendo Coro ligneo di noce intagliato da Carlo Garavaglia (1640-1645): ventidue stalli per i monaci arricchiti da pannelli lavorati quasi a tutto tondo con episodi della vita di san Bernardo, accompagnati da puttini e lesene.
In fondo al transetto sinistro si trova la statua in marmo di Carrara, raffigurante il versetto del salmo Exsurrexi et adhuc sum tecum (138, 18), scolpita nel 1975 da Giacomo Manzù per Raffaele Mattioli (1895-1973), amministratore delegato della Banca Commerciale Italiana, sepolto nel cimitero dell’abbazia.
In cima alla ripida scala presente nel transetto di destra si ammira una delle prime opere di Bernardino Luini: la Madonna della buonanotte del 1512, nome attribuitole dall’abitudine dei monaci che, risalendo al dormitorio, salutavano la Madonna con l’ultimo Ave Maria del giorno.
Chiostro
Una grande lapide marmorea presente nel chiostro riporta gli anni di costruzione del monastero, della chiesa e lo stemma araldico: «Nell’anno di grazia 1135 addì 22.1, fu costruito questo monastero dal beato Bernardo abbate di Chiaravalle: nel 1221 fu consacrata questa Chiesa dal Signor Enrico Arcivescovo milanese, il 2 maggio, in onore di S. Maria di Chiaravalle». Nello parte superiore della lapide lo stemma del convento: tiara, pastorale e la cicogna animale simbolo di Chiaravalle.
Del chiostro duecentesco originario rimane solamente il lato settentrionale dove si notano le colonnine “annodate” che indicano l’unione tra il cielo e la terra e l’affresco della Vergine in trono con Bambino onorata da Cistercensi (prima metà del XVI secolo), un tempo attribuita a Gaudenzio Ferrari e oggi a Callisto Piazza.
Lungo il chiostro si apre il Refettorio (utilizzato ancora oggi dai monaci ) e la sala del Capitolo del 1490, attribuita al Bramante, dove si ammirano i graffiti raffiguranti la Milano del tempo: il Duomo, ancora senza le guglie, Santa Maria delle Grazie in costruzione e il Castello Sforzesco con l’antica torre del Filarete, probabilmente anch’essi del Bramante. Due belle e ampie finestre in cotto permettevano ai conversi, che non avevano “voce in capitolo” di assistere alla riunioni dei monaci e alla lettura dei capitoli della regola di san Benedetto.
Dal lato sud del chiostro, interamente rifatto, si può avere un bel colpo d’occhio sulla Ciribiciaccola (qui fotografata prima dei restauri), torre nolare alta 56,26 metri che spicca sopra la chiesa con le sue bifore, trifore e quadrifore in marmo di Candoglia (lo stesso del Duomo di Milano) che risaltano tra i mattoni rossi in cotto, costruita tra il 1329-1340 ed attribuita a Francesco Pecorari (il costruttore del Torrazzo di Cremona e del campanile di San Gottardo in Corte a Milano). Si osserva inoltre il campanile dell’Abbazia, a forma quadrata, edificato sul finire del Settecento, che ospita un concerto di cinque campane, fuso dalla fonderia del grosino Giorgio Pruneri nel 1907. Il concerto è noto tra i campanari per la notevole pregevolezza e limpidezza del suono dei suoi bronzi ed è riconosciuto tra i migliori lavori del Pruneri in terra ambrosiana. Le cinque campane sono intonate in Re3 Maggiore e la campana maggiore è esattamente un’ottava più grave rispetto alla Bernarda, la quale suona un Re4.
Conclusa la visita guidata alle 12,15 alcuni camminatori hanno partecipato alla preghiera e al canto dei monaci dell’ora Sesta
Breve introduzione storica: i monaci Cistercensi della bassa milanese
Tunica chiara, scapolare nero, regola benedettina “ora et labora” che condensa i fondamenti della vita dei monaci cistercensi che nel lontano XII secolo bonificarono i terreni paludosi della bassa milanese, dissodarono le terre incolte, costruirono le marcite per avere foraggio fresco tutto l’anno. Riorganizzarono inoltre il lavoro nei campi costruendo le “grancie”, fattorie con stalle, magazzini, officine (strutture che si tramanderanno poi nelle cascine lombarde) disseminate intorno al monastero a distanza massima di un giorno di cammino, amministrate da monaci grancieri o conversi che si avvalevano di numerosi lavoratori agricoli salariati e stagionali per fornire tutti gli alimenti necessari per la sopravvivenza del monastero.
La produzione agricola era abbondante e garantita grazie all’introduzione della rotazione triennale delle culture cerealicole e la loro macina “veloce” con l’utilizzo dell’energia idraulica dei mulini ad acqua anziché quella umana o animale: ogni ruota di un mulino in movimento poteva macinare sino a 150 kg di grano l’ora che corrispondeva al lavoro di 40 uomini. Con la bonifica delle terre si diffuse anche l’allevamento del bestiame e per non sprecare la ricca disponibilità di latte fresco venne adottata dai monaci cistercensi un’efficace modalità di conservazione del latte che veniva cotto in apposite caldaie, poi veniva aggiunto il caglio e il sale e infine veniva sottoposto a stagionatura. Nacque così un “formaggio vecchio o invecchiato” chiamato dal popolo con il termine “grana” per la sua pasta granulosa (Grana Padano).
Ultimo agg.: 25 Nov 2021